Money talks, il potere dei soldi

Money talks, il potere dei soldi

Dna e progetto. Natura e cultura. Rivoluzione e restaurazione. Il possibile ritorno di Massimiliano Allegri spalanca praterie ad ogni genere di discussione (oltre che, questa è scontata ma impossibile da evitare, alle sgroppate di Minnesota). Grande ritorno o minestra riscaldata? Premesso che la minestra riscaldata gode di una cattiva fama immeritata (la mia pasta e fagioli vale due stelle Michelin il giorno in cui la preparo e tre il giorno dopo), i precedenti in casa Juve sono tutto sommato incoraggianti. Ma lasciamo perdere per un secondo le nostre opinioni personali su Allegri e sull’esito di un possibile ritorno e proviamo a fare un discorso d’ordine più generale. 

È innegabile che riconsegnare la Juve ad Allegri rappresenterebbe non solo una clamorosa inversione a U, ma una vera e propria sconfessione del progetto iniziato due anni fa. Qualunque cosa quel progetto volesse significare. Attenzione: se dovessimo far riferimento alle esternazioni ufficiali dello Juventus Football Club, non potremmo parlare né di rivoluzione né di restaurazione né di progetto tout-court, visto che nessuno della società ha mai fatto cenno a nulla di simile. Ne hanno parlato tutti, tranne la Juventus. La Juventus lo ha, se così si può dire, lasciato intendere. Berlusconi, all’apice della sua mania di protagonismo, era solito millantare grande competenza calcistica, concionava di bel giuoco ed era prodigo di consigli tattici a suoi allenatori, ai quali imponeva, almeno a parole, di giocare sempre con due punte perché il Milan doveva avere un gioco offensivo.

Anche Moratti, così come un tempo l’Avvocato, si esponeva con giudizi, se non tecnici, estetici, esprimendo apprezzamento e ammirazione per questo o quel giocatore. Andrea Agnelli no. Lui di calcio giocato non parla mai. Da questo punto di vista ogni discorso sulla fedeltà o sulla rottura con una qualsivoglia filosofia calcistica è basato su congetture. E, in parte, su luoghi comuni tutti da verificare. La Juve di Lippi che perde la finale di Champions contro il Milan di Ancelotti rappresenta davvero un calcio italiano (mi sembra quasi di sentir parlare Stanis Larochelle, e chi non coglie la citazione peste lo colga) sconfitto da un calcio europeo? Quella Juve si inscrive davvero in una storia calcistica di difensivismo e pragmatismo esasperato, che unisce nel segno del risultatismo Heriberto Herrera e il Trap, Zoff e Lippi, Conte e Allegri? Troppe generalizzazioni indebite.

Si parla con molta disinvoltura di Dna e di progetti, chi con entusiasmo e chi con scetticismo, in molti casi con approssimazione. Non esiste alcun Dna. È una metafora molto grossolana per qualcosa di simile alla cultura organizzativa, ma la cultura (organizzativa o no) è concettualmente contrapposta al Dna, che è un dato di natura. La cultura, intesa come complesso di conoscenze, di valori e di norme di comportamento, è per definizione qualcosa che può cambiare. A volte con fatica e in tempi lunghi, a volte da un giorno all’altro o quasi. Il calcio si avvicina più al secondo caso. Una squadra è fatta di undici giocatori agli ordini di un allenatore, non è un’azienda con undicimila impiegati o una nazione di undici milioni di persone. In un’estate può tranquillamente passare dal catenaccio al calcio più offensivo del mondo. 

Proprio per questo anche la parola progetto è nominata troppo a sproposito. Per cambiare la filosofia di gioco non serve un piano quinquennale. Quelli servono per dare solidità economica alla società. Bisogna fare esercizio di realismo e ammettere che sono i soldi sono il principale fattore di successo. Molti avranno sentito parlare, qualche anno fa, del libro Soccernomics, scritto da Simon Kuper e Stefan Szymanski che dimostra in modo abbastanza convincente questa affermazione. Analizzando il monte ingaggi di tutti i club inglesi dal 1978 al 2001, gli autori avevano rilevato una correlazione superiore al 90% tra gli stipendi e la posizione in classifica. Tradotto: chi paga di più, arriva primo. Chi paga di meno, arriva ultimo. Quasi sempre. Altri studi confermano la correlazione. Ricordate le sortite di Sarri sul fatturato? Beh, non aveva tutti i torti. 

E forse non ha tutti i torti Agnelli a concentrarsi sul business. Capello al suo primo anno alla Roma arrivò sesto. Poi Sensi comprò in una botta sola Zebina, Samuel, Emerson, Balbo e Batistuta. Risultato? Scudetto. Penso sempre a questo esempio quando sento evocare grandi visioni a lungo termine illuminate da chissà quali modernissime (ed europeissime, ça va sans dire) concezioni calcistiche. “Money talks, and money decides where you finish up in the leagues”. Basta confrontare la classifica delle spese per trasferimenti della Serie A con la classifica reale per osservare che l’affermazione non è troppo lontana dal vero. Un Sassuolo (paradigma assieme all’Atalanta del progetto basato su un’idea di calcio) ha negli ultimi anni una posizione in classifica che corrisponde in linea di massima al suo livello di spesa. Con buona pace delle lodi sperticate a De Zerbi.

Che i soldi determinino la posizione in classifica si basa sull’assunto, a mio avviso del tutto condivisibile, che il valore economico dei calciatori corrisponda tendenzialmente al loro valore sportivo e che sia perfettamente conosciuto dal mercato. Che la posizione in classifica dipenda al 90% dai soldi relega a un 10% l’impatto di un allenatore sui risultati, il che corrobora la tesi allegriana secondo cui il principale compito di un tecnico è fare meno danni possibili. In realtà il 10% è già moltissimo. Alcune scimmie condividono con noi il 99% dei geni. Evidentemente basta pochissimo per fare una differenza enorme. Tutto questo però ha ben poco a che fare col Dna di una squadra o, al contrario, con il progetto.

Qual è il progetto del Bayern, del Real Madrid, del City? Credo che spesso tendiamo a etichettare come “calcio europeo” quello che è semplicemente il prodotto di piedi più educati. La Roma che perde 6-2 a Manchester con una difesa altissima sta solo dimostrando che con una squadra più forte non ci sono idee che tengano o sta pagando il prezzo di un progetto europeo, di una fedeltà a uno stile di gioco che in quattro o cinque anni darà i suoi frutti? Ma nel calcio cinque anni sono un’eternità, un lungo periodo in cui, parafrasando Keynes, “siamo tutti morti”. La Roma può sperare, fra quattro o cinque anni, di riuscire a comprare in una sola estate i nuovi Samuel, Emerson e Batistuta. E di avere un tecnico che sia in grado di trovare la giusta alchimia.

Lo stesso vale per la Juventus. Due anni fa, prendere ad Allegri Isco, Pogba e Kane, tanto per fare tre nomi, avrebbe forse prodotto un calcio più europeo che sostituire Allegri con Sarri. Naturalmente non si tratta di negare le differenze tra le attitudini più o meno offensive di un tecnico rispetto ad un altro, ognuno è libero di avere le sue preferenze, ma la discussione sul prossimo futuro della Juve non può essere impostata sulla dicotomia dna-progetto o su quella, che è lo stesso, calcio italiano-calcio europeo. Una discussione del genere è del tutto fuorviante.