Quelle che seguono sono riflessioni sul calcio come religione. Due avvertenze: primo, l’articolo è molto lungo. Quindi, anche ammesso che riesca nell’impresa di non essere noioso, lo sconsiglio a chi ha una soglia di attenzione che non supera le venti parole preferisce l’estrema sintesi. Secondo, sono pensieri in libertà: un tentativo senza pretese di capire come viviamo il calcio al giorno d’oggi. Sono considerazioni suggeritemi dall’ondata di indignazione contro la Superlega, un’indignazione di cui mi ha colpito, per l’appunto, il fervore religioso. L’iniziativa non mi piaceva e continua a non piacermi, eppure dopo un po’ il tono delle invettive ha iniziato a suonarmi un po’ troppo simile a quello dei fanatici religiosi che lapidano l’eretico di turno e mi ha spinto a farmi qualche domanda.
Che il calcio fosse una forma di religione universale lo avevano già capito in tanti. Che come ogni religione abbia generato caste di sacerdoti auto-insignitisi del compito di vegliare sull’ortodossia, pure. Il moralismo straripante delle ultime settimane ce ne ha dato ulteriore conferma. Ed è a sua volta la conferma di come il calcio svolga un ruolo materiale e simbolico notevolissimo nella nostra società. La religione è una forma di far fronte all’incertezza della condizione umana; il bisogno di credere è il bisogno di avere delle certezze durevoli, un qualche assoluto di riferimento che trascenda le nostre misere e caduche esistenze. In un mondo sempre più secolarizzato e scettico, in cui il ruolo della religione tradizionale si riduce sempre più, il bisogno di credere resta ugualmente forte, dando origine a molti paradossi.
La pandemia ne ha fatto emergere uno in modo clamoroso: da un lato un affidamento quasi fideistico alla scienza (come se la scienza fosse una verità monolitica e non un metodo e un processo), con tanto di fan divisi tra virologi superstar e di slogan idioti (della serie “la scienza non è democratica”); dall’altro schiere di no vax pronti a credere contemporaneamente che il virus non esiste e che è un complotto di Bill Gates. Un ateo incallito potrebbe dire che credere a due cose logicamente incompatibili (vergine e madre, uno e trino) è esattamente ciò che caratterizza le religioni, e avrebbe ragione. Un credente potrebbe ribattere citando una famosa battuta, falsamente attribuita a G.K. Chesterton: “Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto” e come dargli torto? C’è chi crede che la terra sia piatta, chi è morto credendo a Trump che suggeriva di difendersi dal virus bevendo varechina, chi prende pillole omeopatiche e chi crede che Soros sia mandato dagli extraterrestri.
In questo contesto – e non da oggi – anche il calcio fa la sua parte e produce idoli cui tributare omaggi e devozione. Della partita come grande messa laica della domenica, celebrata nella cattedrale laica dello stadio, hanno detto in molti. Leonardo Boff, uno dei padri fondatori della “teologia della liberazione”, in occasione dei mondiali in Brasile, ha paragonato il sistema calcio all’organizzazione di una Chiesa, con un papa circondato da vescovi e cardinali (il presidente della Fifa con i dirigenti e i funzionari), dei sacerdoti (gli «allenatori, portatori di speciale potere sacramentale di confermare o togliere i giocatori»). Boff paragona poi la coppa al Sacro Graal, una similitudine che agli juventini non dovrebbe suonare troppo assurda. Infine, naturalmente, c’è la enorme massa dei fedeli-tifosi. In inglese, si chiamano fan. La parola deriva dal latino fanaticus, invasato, ispirato dalla divinità, e attinge direttamente al linguaggio del sacro. Il termine italiano tifoso rimanda alle febbri e ai deliri del tifo, quindi al territorio della patologia.
Sono suggestioni e non è il caso di andare troppo in là nello stabilire relazioni tra religione, fanatismo e tifo, ma che queste relazioni esistano è difficile da negare. Anzi, nel tifo sportivo si replica un’altra caratteristica della religione: l’essere una risposta non solo al bisogno di credere, ma al bisogno di credere tutti nella stessa cosa. C’è una vasta letteratura sulla dimensione comunitaria, ancorché in certi casi violenta o addirittura criminale, del tifo organizzato. Violenta o criminale, ma a volte anche espressione di una coscienza politica, rozza se vogliamo ma non necessariamente inconsapevole – qualcuno ha mai visto un video dei tifosi del Liverpool che cantano “when Maggie Thatcher dies we’re all havin’ a party”? La rivolta contro la Superlega forse può essere letta come la somma contraddizione delle tifoserie che difendono il loro peculiare bene comune: la rivalità. La resistenza del tifo organizzato (possiamo dire: dei fedeli più zelanti?) è la dimostrazione che il tifoso è irriducibile al business che lo vuole utente e consumatore o è forse l’ultima reazione di un mondo che, Superlega o meno, sta per scomparire fagocitato dalla modernità? Gli stadi saranno sempre più una via di mezzo tra un teatro e un centro commerciale; il tifo delle curve, con i suoi rituali militar-religiosi, sempre più sterilizzato.
Senza voler fare sociologia da due soldi, è facile immaginare che la marginalità antisistema rappresentata dagli ultras, una volta espulsa dagli stadi, troverà altri modi di espressione: se più o meno violenti, è tutto da vedere. Il che ci porta a due domande. La prima: questi zeloti del calcio continueranno a sentirsi una cosa sola con la squadra del cuore o la fedeltà a una maglia si rivelerà essere stata solo un pretesto per aggregarsi? La seconda: fino a che punto il tifoso medio è rappresentato dall’ultrà che sbraita in curva, che magari si mena con il tifoso rivale o con la polizia, che manifesta fuori dalla sede contro la cessione di un giocatore o contro la partecipazione alla Superlega? È un interrogativo rilevante, perché la risposta coinvolge anche noi, che non siamo violenti né fanatici e che presumiamo di essere lontani da atteggiamenti irrazionali.
Qualche anno fa ci fu un caso curioso, un cortocircuito di quelli che, per chi sa annusare le cose, mettono in luce contraddizioni nascoste. È il 14 aprile 2012. Allo Stadio Adriatico si gioca Pescara-Livorno, 14a giornata di ritorno del campionato di serie B. Attorno al 31’ Piermario Morosini, centrocampista del Livorno di 26 anni, si accascia al suolo a causa di un malore. È un arresto cardiaco. Le immagini sono drammatiche: lui che cerca di rialzarsi più volte ma non ce la fa, il compagno che si sbraccia verso l’arbitro, la disperazione dei giocatori che si accorgono della gravità della situazione, l’ambulanza che entra in campo. Morosini morirà poco dopo in ospedale.
La vicenda ha grande eco anche fuori dall’Italia. Al Bernabeu si osserva un minuto di silenzio, il Barcellona scende in campo con il lutto al braccio. Ai suoi funerali, a Bergamo, partecipano oltre diecimila persone. Sono presenti tutti i vertici del calcio italiano, tra cui il Ct della nazionale, Cesare Prandelli e quello della Under 21, Ciro Ferrara. Tanta partecipazione emotiva per una persona di cui tutti ignoravano l’esistenza fino al giorno prima sarebbe già, di per sé, degna di curiosità, ma il fatto curioso deve ancora arrivare. È apparentemente marginale, oggi non se ne ricorda più nessuno, ma è rivelatore.
Succede che su un sito di cattolici conservatori, Pontifex.roma, un certo Bruno Volpe scrive un articolo, forse l’unico che si distacca dai coccodrilli strappalacrime che appaiono su tutti i giornali. Volpe dice quello che il conformismo della commozione collettiva non vuole ascoltare: “Come al solito, i tromboni del politicamente corretto hanno cominciato i loro discorsi da salotti buoni, arrivando a dire persino che i calciatori sono stressati da impegni eccessivi. Evidentemente, non si rendono conto di come lavorano veramente e con scarso reddito, portuali, metalmeccanici, contadini. Quello di Morosini è stato un incidente sul lavoro come tanti ed in questa ottica, sino a prova contraria, va considerato.”
Ma non è questo il punto.A partire da una prospettiva religiosa ortodossa, Volpe fa una considerazione in termini di diritto canonico: “Morosini conviveva more uxorio con la fidanzata, senza alcun vincolo matrimoniale e non ne faceva mistero alcuno. Non risulta essersi pentito o aver detto di voler cambiare vita. Certamente Dio, nella sua infinita misericordia ne terrà conto e lo giudicherà con clemenza e pietà, ma la sua situazione è quella di pubblico peccatore, di chi ha dato con la vita pubblico scandalo e pertanto le esequie funebri pubbliche, con tanto di pompa magna, sono un altro abuso della Chiesa modernista che ormai stravolge tutto e tutti.”
Ora, io sono pastafariano e mi cale poco o punto che a un funerale in chiesa si cantino i salmi, Luigi Tenco o Marylin Manson. Meno ancora che il defunto fosse o no regolarmente sposato. Ma tecnicamente questo Volpe aveva ragione. Voglio dire: dal punto di vista delle regole della Chiesa cattolica, diceva una cosa incontrovertibile. Peraltro non dava alcun giudizio sulla persona di Morosini, ma solo sull’ortodossia delle esequie oltre che sulla forma del funerale-spettacolo (telecamere, cori, applausi, canzoni di Ligabue al posto dei brani previsti dalla liturgia). Niente da fare: un’ondata di indignazione in rete travolgeva Pontifex e il suo autore, accusato di essere uno sciacallo immorale e senza cuore.
Un articolo di Calciomercato.com, sito tra i più seguiti, legato alla Gazzetta dello Sport, commentava così: “il sito cattolico ultraconservatore Pontifex.roma.it […] un indecente, ributtante, editoriale contro il calciatore […] Nella palata di nefandezze […] Dalla cloaca massima di un pensiero che si definisce cristiano, scaturisce anche questo altro miasma […] Queste parole ignobili hanno scatenato la rivolta sul web contro Pontifex […] C’è una sola cosa da dire a questi di Pontifex: andate all’inferno. E restateci.”
Due cose colpiscono: primo, la violenza verbale, del tutto assente nelle considerazioni dell’ultraconservatore. La seconda, la pretesa di definire cosa sia cristiano e cosa no da una posizione “esterna”. Una reazione così scomposta di fronte a un’opinione non solo intrinsecamente innocua ma pure minoritaria era sintomo, chiedo venia ancora una volta per l’analisi sociologica da due soldi, di una patologia. In ogni caso l’articolo toccava evidentemente un nervo scoperto. Intendiamoci, il blog cattolico (che, per la cronaca, chiuse l’anno successivo) era detestabile per molte ragioni, tra cui alcune prese di posizione medievali su omosessualità, femminismo, aborto, per arrivare a sfiorare l’antisemitismo. Eppure, per cosa fu durissimamente attaccato? Per aver criticato la sacralità dei rituali calcistici in nome di una sacralità più autentica. In sostanza, per aver messo in discussione lo status simbolico e sociale del calcio
In mancanza di santi laici, il calcio diventa un dispositivo automatico di santificazione e, dialetticamente, di demonizzazione: il giocatore è tenuto, in nome di un non meglio specificato ruolo pedagogico, ad essere di esempio. Visita gli infermi, si fa fotografare col bambino handicappato, fa beneficienza. È oggetto dello sdegno popolare (e della riprovazione morale dei sommi sacerdoti mediatici) non appena si comporta male. Che lo sdegno sia ondivago, viziato da pregiudizi e incoerenze è fisiologico e non cambia il quadro generale. D’altronde anche nella storia della Chiesa la differenza tra chi è santificato e chi va sul rogo dipende dall’umore e dagli interessi dell’inquisitore. Ma il moralismo è un atteggiamento che noi stessi adottiamo molto più spesso di quel che pensiamo non appena parliamo di calcio. La cosa degna di interesse è il fatto che è il calcio in sé a catalizzare la coppia sacralizzazione/demonizzazione: non è necessario essere Maradona, basta essere calciatore per ricadere, ipso facto, nelle categorie di buono o cattivo esempio, di vittima o di colpevole di qualcosa, santo o dannato.
In altre occasioni in cui il calcio ha generato un parossismo emotivo generalizzato: penso alla Chapecoense, sconosciutissima squadra brasiliana vittima però di un grave incidente aereo, cioè di un evento drammatico e spettacolare per definizione; penso alla morte di Astori, buon giocatore divenuto una leggenda sull’onda di una commozione tanto virale quanto epidermica, sulla falsariga dei fenomeni alla “Je suis Charlie” che a suo tempo invase per qualche settimana i social di mezza Italia. Senza alcuna ragione particolare, Astori è diventato una specie di santino, di quelli che nei servizi dei telegiornali sono accompagnati immancabilmente da una musichetta triste e malinconica. C’è sicuramente in tutto questo una dinamica tipica dei social, dove si alternano fiammate di indignazione, di entusiasmo o di commozione in modo spesso superficiale, non meditato e un po’ pecorone. Ma c’è anche qualcos’altro: se il bisogno di emozionarsi per qualcosa è generalizzato e trasversale, la capacità del calcio di catalizzare questo bisogno è davvero speciale.
Dicevamo della Superlega. In apparenza la questione sembrerebbe abbastanza lontana dalla passione religiosa che sottende al tifo, eppure resta la domanda cui accennavo prima: la rivolta generalizzata delle tifoserie ci dice o no qualcosa in proposito? Chi protesta è la solita minoranza rumorosa, sovrarappresentata rispetto alla maggioranza silenziosa o c’è tra le due una sostanziale unità di vedute? Se vale la metafora di Boff, possiamo considerare la creazione di una Superlega alla stregua di uno scisma? Di certo c’è un qualcosa di clericale e predicatorio nel modo in cui molti commentatori si sono improvvisati apologeti del calcio autentico (del resto, quando c’è uno scisma, c’è sempre chi rivendica la fedeltà a una mitologica autenticità originaria). I sermoni che ci hanno spiegato cos’è il bene e cos’è il male hanno attinto a piene mani alla retorica dell’uguaglianza e degli immancabili valori sportivi, ma il moralismo di fondo, gratta gratta, suona falso. Non solo e non tanto per la malcelata intenzione di trovare l’eretico colpevole di tutti i mali (guess who?), ma per l’ipocrisia che nasconde interessi materiali di varia natura: introiti pubblicitari, diritti televisivi, carriere che si arrestano e altre che si impennano… Insomma soldi, visibilità, potere. Ma in fondo non è così per tutte le religioni?