Quindi, è ufficiale. È tornato. Potremmo andare avanti fino all’inizio del prossimo campionato a chiederci che senso abbiano avuto gli ultimi anni: l’arrivo di Ronaldo, il siluramento di Allegri, l’arrivo di Sarri, il covid, il siluramento di Sarri, l’arrivo di Pirlo, la Superlega, l’aborto della Superlega, il siluramento di Pirlo, il ritorno di Allegri, il siluramento di Paratici. Difficile, onestamente, trovare una logica che restituisca un quadro coerente. Dell’inconsistenza del concetto di DNA, abbiamo già detto. Di quando sia sfuggente e inaffidabile il termine progetto, pure.
Poco utile e nemmeno troppo interessante lanciarsi in improbabili cacce all’uomo, invocando la ghigliottina per questo e la damnatio memoriae per quell’altro. Ovvio, non si può far finta che il ritorno di Allegri non sia una clamorosa sconfessione del proprio stesso operato. Ma anche questo lo abbiamo già detto, che altro potremmo aggiungere? Forse la cosa migliore è chiedersi se l’Allegri di oggi sia lo stesso di due anni fa o se sia, in qualche modo un allenatore diverso. Proviamo a riavvolgere il nastro.
“Ogni lunedì mi arrivano dei pacchi di roba con tutti i numeri e le statistiche immaginabili, ma io guardo soltanto due cose: i falli fatti e subiti e i contrasti aerei vinti e persi. Perché se fai fallo vuol dire che sei vicino alla palla. E infatti anche nella finale di Cardiff, appena è finita l’aggressività ci hanno gonfiati come zampogne nel secondo tempo”. E le analisi in video tanto utilizzate dai colleghi? “Io non sto ventisei ore a preparare una partita, sono un allenatore naturale e non costruito. Guardo quello che devo guardare e in un quarto d’ora capisco quello che posso capire. Se restassi tutto il giorno a guardare video, alla fine non capirei nulla…”.
Sono dichiarazioni di due anni fa, rilasciate in occasione dell’uscita del suo libro, dal titolo eloquente: È molto semplice. Vanno lette nel contesto di una discussione pubblica in cui il calcio di Allegri, seppur vincente, veniva sempre più spesso messo in discussione per la sua presunta incapacità di dare spettacolo e di imporsi a livello europeo. È probabile che nemmeno Allegri credesse davvero a quel che diceva quando affermava che il calcio è semplice, che si arretra quando l’avversario avanza e si avanza quando l’avversario arretra.
Certe uscite spiegano qualcosa del calcio di Allegri o sono per lo più trollate indirizzate in modo più o meno diretto agli Adani di turno? Difficile dirlo, perché la discussione tra belgiochisti e risultatisti è di per sé viziata da pregiudizi e da incoerenze logiche. Molti profeti del bel gioco, di quelli che per un motivo o per l’altro si sentono autorizzati a giudicare una cosa ingiudicabile quale la bellezza, hanno rimproverato alla Juve difetti che nelle altre squadre non hanno notato mai. E così in un decennio di vittorie sembra che abbiano giocato tutti bene tranne la Juve.
A un certo punto sembrava che giocasse meglio persino il Napoli di Mazzarri. Non parliamo del Napoli di Sarri. Ma a turno c’è stato il momento della Fiorentina di Montella, di quella di Paulo Sousa, della Roma di Garcia magnificata oltre ogni ragionevole merito (soprattutto dalla redazione sportiva della Rai, tradizionalmente romanocentrica), poi ovviamente c’è stata l’Atalanta di Gasperini, infine il Sassuolo di De Zerbi. Ah, l’anno scorso abbiamo aggiunto anche la Lazio di Inzaghi alla lista. Alcune di queste squadre hanno giocato bene per non più due o tre mesi, se non settimane, ma la narrazione complessiva resta quella di una Juve sempre seconda a qualcuno sul piano del gioco.
Che una squadra vinca, e vinca per un decennio, giocando peggio delle avversarie è, per dirlo in modo chiaro, una fesseria. (Nota bene: i critici che hanno magnificato il gioco delle nostre avversarie sono gli stessi che hanno sminuito il valore del campionato in cui le stesse hanno accumulato centinaia di punti di distacco – questo per dire il livello di onestà intellettuale che possiamo aspettarci).
Eppure Allegri si è prestato al gioco dei critici auto-incasellandosi nel ruolo del risultatista duro e puro. Infastidito dal tono a volte quasi canzonatorio di certi opinionisti (penso a Sacchi e ad Adani, ma non solo), piccato dai giudizi spesso ingenerosi sul gioco espresso dalla sua Juve, invece di rivendicare una bellezza diversa da quella invocata dai criticatutto, ha, non si sa bene se per puntiglio o per convinzione, se per orgoglio o per ripicca, rivendicato esattamente quello che gli veniva rimproverato, in questo tacitamente spalleggiato da una società che aveva fatto suo il motto vincere è l’unica cosa che conta.
Ed ecco la tesi che il calcio è semplice, che contano solo i giocatori, che l’allenatore ha il solo compito di non far perdere troppi punti, che quello che conta è il tuo nome sull’albo d’oro e non come ci sei finito, che vincere di corto muso non è diverso che vincere con sei lunghezze di vantaggio e così via. Quanto le sparate di Allegri sull’irrilevanza della prestazione a fronte del risultato rappresentassero una forma di giustificazione ex post del proprio operato, quanto una mera provocazione e quanto un vero e proprio manifesto di gioco, non saprei dirlo. Forse un po’ tutte queste cose insieme.
Tuttavia, io so che Allegri è un tattico di vaglia, molto più evoluto di quel vuol lasciare intendere, che avrebbe le capacità e le competenze per proporre un calcio leggermente un po’ più propenso al rischio. Non gli chiedo di rinunciare al suo pragmatismo, ma solo di ricordare che il malcontento di tanti tifosi di due anni fa era reale e non istigato dai cattivi consigli di Adani. Che Sarri e Pirlo non abbiano offerto uno spettacolo più accattivante non sposta il problema di una virgola. Tornare con propositi revanscisti, di restaurazione dell’Ancien Régime sarebbe un grande errore. Purtroppo, visto il ribaltone in corso, temo che lo scenario sia proprio questo. Anzi temo che l’idea di fondo sia quella, perniciosa, di un dna juventino risultatista-difensivista che è stato tradito e che deve essere ritrovato.
E anche vero che Allegri stesso, contraddicendosi, indicava come miglior prestazione dell’anno la partita contro il Manchester United, persa ma dominata in termini di occasioni e di possesso palla. Possiamo sperare che sia quello l’Allegri che è tornato? Io ci spero, perché il personaggio è troppo intelligente per non capire la fondatezza di certe critiche. Quando dice: “Vogliono far passare il calcio per scienza, invece non c’è un cavolo di niente di scientifico. È uno spettacolo, e lo spettacolo lo fanno gli artisti. Qui vogliono spoetizzare il calcio, soffocare la creatività: è questo l’errore più grande che stiamo facendo. Se togli la poesia, allora tanta vale giocarsela al computer” dice una cosa anche condivisibile ma un po’ demagogica e incoerente con l’immagine di una squadra improntata al primo non prenderle.
Senza farla troppo complicata: il numero di tiri in porta, di azioni nell’area avversaria, di possesso palla in campo avversario, i vari indici di pericolosità non sono solo fisime statistiche da nerd, ma indicatori che con tutti i loro limiti oggettivano tutte quelle cose che rendono una partita, per un tifoso, più piacevole di essere vista, a prescindere dal risultato (a parte il fatto che sono tutti, guarda caso, indicatori fortemente correlati alle chance di vittoria).
Speriamo che Allegri e la società si ricordino che negli ultimi tre o quattro anni il problema (tattico, non di giocatori) della Juve è stato l’attacco, non la difesa. Quando siamo stati eliminati dall’Ajax, nei quarti di Champions, la Juve era l’ultima delle otto squadre in gioco in tutti questi indicatori, vorrà dire qualcosa? Possiamo sperare in una Juve che almeno ci prova, senza dare per scontata una rinuncia programmatica al rischio? In fondo, caro Max, il calcio è molto semplice.