Raramente ho adorato un calciatore quanto lui. Edgar Steven Davids, di Paramaribo, Suriname. Naturalizzato olandese. E come tale è stato il primo della storia della Juventus. Non si può dire che non sia stato un successo atomico. Edgar era ben noto anche col suo soprannome, Pitbull. Glielo mise van Gaal che quasi giustificandosi spiegò che era per la sua aggressività in campo, ma effettivamente era uno che non mollava la presa nemmeno se gli sparavi, proprio come il cane.
Icona di gioco e di stile, coi suoi occhiali, i dreadlocks e le pubblicità della Nike, ha profondamente segnato la Serie A degli anni a cavallo tra i ’90 e il nuovo millennio, come uno dei più forti centrocampisti ad aver mai calcato quei campi. Un calciatore che se ne andava in giro come fosse Lenny Kravitz sfoggiando eleganza e fidanzate bellissime. Ma con quel cuore banlieue sempre a battere nel petto, quel legame con la strada, i campetti improvvisati e la magia di un pallone in mezzo un pugno di ragazzini.

Sì perché Edgar è stato prima di tutto autentico. Uno che ha donato il suo talento senza mai risparmiarsi, ma a modo suo, senza compromessi, senza storie. Uno che ha sempre ricercato quella verità nel pallone, quell’incanto tipico dell’infanzia. La sua non deve essere stata semplicissima nel quartiere di Nieuwendam, figlio di uno scaricatore di porto e una donna delle pulizie. Ma è venuto su più forte di un grizzly. Un metro e sessantanove di pura potenza e tecnica sopraffina. Era il suo mix letale.
Davids alzava ben oltre 100 kg di panca piana e aveva una frequenza cardiaca di 46/48 battiti al minuto a riposo. È stato colui che meglio di chiunque altro in epoca moderna ha saputo combinare insieme i concetti di qualità e quantità propri del calcio, finendo per diventare uno dei primi calciatori cult del suo tempo. Fu una fortuna immensa che la mela marcia di Billy Costacurta incrociasse il cammino dei bianconeri, quando per pochi spicci si trasferì a Torino come ennesimo esempio di quelle operazioni moggiane.

Arrivò in Italia dall’Ajax dei miracoli al Milan, e neanche due minuti dopo ebbe uno scontro con tre persone per via di una disputa per un parcheggio. Ne picchiò due su tre. Sappiamo tutti quale è stata la sua carriera, quindi non starò qui a ricordarla passaggio per passaggio, preferisco piuttosto parlare di lui, dentro e fuori dal campo, perché i calciatori sono anche uomini, e le due cose non sono mai del tutto scisse. Quando poi ci si ritrova davanti a personaggi di tale calibro e spessore, diventa un tutt’uno.
Inevitabilmente. Disse pubblicamente che non avrebbe preso volentieri un caffè con Moggi, e trascinò Zidane per strada a giocare con ragazzini e immigrati di notte, dopo gli allenamenti con la Juventus. Sì, trasgredì una buona dose di regole per farlo, ma quello era il suo spirito, autentico, come dicevo in principio. “È per loro che dobbiamo giocare, sono queste le partite importanti’ diceva a Zizou. Quell’irresistibile legame con la strada e con un pallone. Per le cose vere. E Zizou andò con lui.

«Un giorno dopo l’allenamento venne il mio grande amico Edgar Davids e mi disse: ‘Ti va di venire a fare una partitella in strada con dei ragazzi?’
Io gli risposi che era matto, che era una pazzia, o uno scherzo, e per di più era vietato dal regolamento del club per evitare infortuni.
Lui mi fissò serio e mi disse: ‘Zizou, sei cambiato, ti sei montato la testa…non ricordi gli inizi? Non ricordi quando giocavi in mezzo alla strada? Vieni con me, dimostrami che sei sempre lo stesso!’
Alla fine mi convinse, decisi di andare con lui per giocare una partita sull’asfalto. Ero consapevole di fare una follia, soprattutto con addosso la fatica per l’allenamento. Andai diverse volte con lui. Non è una leggenda la storia che vuole che io mettessi un cappellaccio da pescatore per andare a giocare con gli immigrati. A spingermi era sempre Edgar. Lui ci andava matto, lo faceva molto spesso: prendeva la macchina e quando vedeva qualcuno giocare in un parcheggio si fermava per aggregarsi. Ci divertivamo a giocare con quegli adolescenti che sembravano in estasi.
Mi diceva sempre: ‘È per loro che dobbiamo giocare, sono queste le partite importanti’. E io gli dicevo: ‘Ok, ma abbiamo gli allenamenti, apparteniamo a un club di alto livello, non possiamo rischiare di infortunarci’. Allo stesso tempo però, lo ammiravo, perché era in grado di fare delle cose del genere».
Le parole di Zizou tratteggiano bene quel temperamento di fuoco e un po’ ribelle, insieme a un animo giocoso, onesto senza compromessi, e ancora una volta autentico, vero, concreto. Quello che era l’uomo fuori dal campo. Per ciò che riguarda le sue prestazioni da calciatore invece le parole che preferisco sono quelle di un altro giocatore che ho ammirato tantissimo, purtroppo da avversario, Matias Almeyda, lo straordinario argentino dai quattro polmoni, che lo ricorda così:

«Era l’avversario che mi piaceva di più. Lui mi dava una botta e io mi alzavo senza dire nulla. Io gli davo una botta, e lui si alzava senza dire nulla. Lui a sinistra, io a destra: ci scontravamo sempre. Una guerra. Una volta in un’intervista esposi il mio modo di pensare. Prima della gara successiva Davids mi venne incontro. Ho pensato che era arrivato il momento di fare a pugni, invece lui mi ha stretto la mano e mi ha detto: «Bravo, la penso esattamente come te, potevamo essere amici».
Prendeva una botta, e si rialzava. Poi dava una botta anche lui. Ma non tutti si rialzavano in silenzio, come il guerriero indio Almeyda. Davids sapeva unire insieme tre cose stupefacenti nel suo modo di giocare a calcio, un’aggressività dirompente, una velocità di esecuzione mostruosa e una tecnica funambolica. Non doveva essere piacevole giocarci contro, ma è ciò che lo rese un idolo indiscusso tra i tifosi, era Edgar Davids, il mastino del centrocampo con il suo stile unico, occhiali & treccine.

A ben vedere Edgar non ha perso un grammo di quella autenticità nemmeno dopo aver lasciato i campi verdi. Ha iniziato una carriera da allenatore-giocatore nel Barnet, partendo da categorie che uno del suo blasone non si sogna nemmeno, altro che gavetta. È come se oggi vedeste Kanté venire a giocare nella squadra del vostro quartiere. Era uno che lavorava gratis, non si faceva pagare e semmai pagava lui. Panini, caffè, soste all’autogrill. Una volta mandò il pullman della squadra indietro a prendere dei tifosi che erano rimasti in panne, e poi offrì da bere a tutti.
Lo ringraziarono, ma rispose che era lui che doveva ringraziare loro, per il supporto. Questo è Davids, il cattivo che legge di filosofia. Lo puoi incontrare nelle piazze e tra i vicoli di mezzo mondo, passeggiando come uno qualsiasi e fermandosi a parlare ad Amsterdam con immigrati curdi e armeni. Mangiando una focaccia a Bari o noodles a Phnom Penh. In un parcheggio, sempre lì la sua delizia, a giocare a pallone coi ragazzini del posto. Perché quello è il vero calcio secondo lui, quelle sono le cose che contano.

Niente pose da star-system, del resto uno con quel carisma e quello stile da rockstar può permettersi ciò che vuole. E non è tipo da farsi rompere le scatole da chicchessia, perché così come palleggia amabilmente con qualsiasi ragazzino del pianeta, non si tira indietro se c’è da menare le mani con qualche bullo. Davids era uno di quelli che al confronto Ibrahimovic è un’educanda. Non so perché è stato così importante per me. La gente pensa a Platini e Zidane, è anche logico, io penso a lui. O quelli come lui.
Forse perché ho sempre preferito i giocatori di sostanza, di lotta, botte e guerre. Quelli che sudano ogni goccia e che non si mettono paura di niente. Di centrocampisti così ne nascono pochi. La sua stella allo Stadium fu aggiunta a furor di popolo, quando la tolsero a Boniek. Davids ha una linea di abbigliamento, ma non sono le mutande di Ronaldo, lui veste i bambini, indovinate per cosa? Per lo street-soccer, ovviamente. La strada. Quella da dove è venuto, e dove ha deciso di restare. Sempre e comunque.

Grazie Pitbull, resta sempre come sei.