Almeno il gesto
La nazionale esce con la Macedonia. È un dramma sportivo. Ci si vergogna un po’ a dirlo, in questi tempi di drammi veri. Ma se restiamo al nostro oppiaceo preferito, il calcio, è un dramma a tutti gli effetti: togli il mondiale alla nazionale e le hai tolto tutto, o quasi. Il nostro, tra l’altro, è un curriculum che pesa. Otto semifinali, sei finali, quattro coppe. Restar fuori è inammissibile. Francamente non vedo cosa di più grave di una mancata qualificazione ai mondiali possa indurre un CT (e, con lui, chi dirige la FIGC) a rassegnare le dimissioni. E questo a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Per esempio, che sei uscito con la Macedonia e non con la Germania o, come Giampiero Ventura, con Spagna e Svezia. Il trattamento di favore riservato a Mancini, dai media come dalle istituzioni, è eclatante. A differenza di Ventura, Mancini ha maturato un credito: non tanto grazie alla vittoria degli Europei, ché a certi livelli certi crediti si estinguono subito (grandi onori, grandi stipendi e grandi oneri camminano insieme), ma grazie al gioco che è riuscito a produrre con una selezione di giocatori poco più che discreta. Questo gli va riconosciuto e tutto sommato può aver senso continuare con lui. Ma il beau geste delle dimissioni lo avrebbe dovuto fare comunque.
Tattica e congiunzioni astrali
La sarabanda è partita. È tutta una giostra rutilante di nomi, la Juve che verrà. A dar retta a tutti, Allegri avrà a disposizione una rosa di cinquanta o sessanta giocatori. D’accordo, sappiamo come funziona il giochino del calciomercato, sotto-genere della letteratura fiction nel quale si rifugiano autori di terza categoria e schiere di stagisti sottopagati e sgrammaticati. Ma è come il giallo dell’Urania che una volta si leggeva in spiaggia: la trama fa pena, lo stile fa piangere, ma ci fa passare un ora sotto l’ombrellone senza pensare ad altro, anzi va a finire che ti ci appassioni e vuoi sapere se c’è un lieto fine. Così, non ti puoi impedire di immaginare come sarebbe la Juve se. Se arrivasse Marcos Alonso, o Cambiaso, o Emerson o Bellanova o Renan Lodi al posto di Alex Sandro, ad esempio. Alcuni nomi convincono subito (Salah, Savic, De Jong), molti stuzzicano (Antony, N’Kunku, Tielemans, Molina, Raspadori), altri lasciano tiepidi (Jorginho, Rüdiger, Akanji) o perplessi (Zaniolo, Gabriel Jesus) altri ancora spaventano (Emerson, Berardi). Poi ci sono quelli che stuzzicano e spaventano al tempo stesso (Pogba). Può venirne fuori un cocktail indigesto, ma shakerando bene gli ingredienti giusti, anche un capolavoro: chissà, se l’alchimia è quella giusta, che un domani non ci esalti chi oggi ci lascia tiepidi. La speranza è che una qualche congiunzione astrale metta le pedine giuste al posto giusto. Resta il dubbio: ci stiamo affidando solo alle stelle o l’allenatore ha in mente una sua Juve ideale? Io, giuro, non l’ho ancora capito.
Guerra e pace (e sport)
Evitiamo di fare gli esperti di storia e di geopolitica e risparmiamoci considerazioni già trite e ritrite su genesi, colpe, responsabilità di questa guerra. Evitiamo anche, per pudore e non per qualunquismo, dichiarazioni retoriche su quanto sia brutta e dolorosa e in ultima analisi sempre ingiusta qualsiasi guerra. Limitiamoci ancora una volta al nostro modesto ruolo di consumatori di intrattenimento sportivo e, in qualche occasione, di opinionisti della domenica. La domanda è: la totale messa al bando dei russi e dei bielorussi da tutte le competizioni sportive, ha senso? Ci sono buone ragioni per rispondere affermativamente. Ma io credo che ce ne siano di migliori per rispondere negativamente. Non possiamo pretendere che lo sport sia immune dai conflitti politici e arrivo a dire che, in una qualche misura, ciò non è nemmeno auspicabile a meno che lo si voglia davvero ridurre a puro succedaneo dell’oppio. Ma se crediamo anche solo tiepidamente che lo sport sia, nonostante tutto, veicolo di pace, è necessario trovare soluzioni meno draconiane, proprio per lasciare aperta una porta al dialogo.
