Tu vuo’ fa’ l’americano

Tu vuo’ fa’ l’americano

Investitori Americani e Serie A: che futuro per il calcio Italiano? 

A corredo di questo articolo potete ascoltare una puntata del podcast “Real America”, i cui animatori, tra i quali il sottoscritto, intervistano Salvo Arena, l’avvocato italiano di stanza a New York che ha assistito la maggior parte degli investitori statunitensi che negli ultimi anni hanno acquisito società di Serie A e B. Solo due parole sul podcast, giusto per mettere subito le mani avanti: è un’iniziativa semiseria nella quale mi ha coinvolto, dopo molte insistenze, un amico italiano da molti anni residente a New York. Sono in molti casi chiacchiere in libertà senza eccessive pretese. Qualche volta abbiamo intervistato un esperto del tema trattato nella puntata. L’idea di base è raccontare l’America agli italiani approfondendo aspetti trascurati dai mass media, evitando luoghi comuni. Fine dell’intro.

Per chi non avesse voglia di sorbirsi tutto il podcast, riassumo qui l’argomento di discussione. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’entrata massiccia di investitori statunitensi nel calcio italiano. Al momento sono in mano americana: Roma, Milan, Fiorentina, Atalanta, Parma, Genoa, Venezia, Bologna, Pisa, Spal, Spezia e Cesena. Un’invasione in piena regola: tra le squadre di maggior peso resistono solo Juve e Napoli (e Lazio e Torino, è giusto citare anche loro). In questo panorama fanno parziale eccezione il Palermo, in mano a un fondo saudita e l’Inter, in mano cinese ma “ostaggio” di un fondo statunitense che le ha fornito liquidità. Proprio da qualche giorno hanno ripreso piede i rumors sulla possibile cessione dell’Inter ad un acquirente americano già attivo nel settore del basket professionistico: questo il pretesto per tornare sull’argomento.

Salvo Arena distingue due tipologie di investitori: la prima risponde a un modello vagamente romantico-nostalgico ed è rappresentata dagli italoamericani di successo, miliardari che per un motivo o per l’altro fanno ritorno in patria. Pallotta, Tacopina, Commisso fanno parte di questo gruppo. La seconda tipologia costituisce in qualche modo un salto di qualità ed è rappresentata dai fondi di investimento come 777 (Genoa), Bain Capital (Atalanta), Redbird (Milan). L’interesse per il calcio di questi soggetti (tra i quali possiamo inserire anche quelli, come InvestCorp, che hanno presentato offerte senza poi chiudere il deal), tutti molto strutturati, dotati di capitali e altamente professionalizzati, è a sua volta degno di interesse.

La Premier League ha già sperimentato da anni l’ingresso di capitali stranieri nella proprietà delle squadre di calcio. Lingua inglese, maggiore efficienza e affidabilità del sistema, centralità culturale e finanziaria di Londra hanno senz’altro contribuito a rendere attrattiva l’Inghilterra per i petrodollari sauditi e russi, ma anche per i capitali americani. (Mia personalissima illazione: l’essere la City un grande paradiso fiscale ha forse avuto un ruolo non proprio secondario nella storia.)  Il calcio italiano sta dunque definitivamente abbandonando le strade di campagna del medioevo dei Rozzi e degli Anconetani (ma anche dei Sensi e dei Moratti) per salire sul treno superveloce dell’industria dell’entertainment globalizzato?

Difficile dirlo. L’idea che Salvo Arena esprime nel podcast è che l’investimento americano sia di lungo termine e in ogni caso orientato alla crescita sportiva oltre che economica delle società calcistiche. In sostanza: l’ingresso nel calcio non è un pretesto per mere speculazioni immobiliari e tantomeno per spolpare la società di cacio dall’interno. Ciò su cui puntano gli yankee sarebbero i margini di crescita del prodotto sui mercati esteri. Su questo punto io ho tentato, invero non troppo efficacemente, di esprimere qualche dubbio.

È probabile che in effetti, come sostiene Arena (che ricorda l’apertura di un ufficio a New York da parte della Lega Calcio propri a questo scopo), il mercato dei clienti di origine italiana in Australia e in Nord America, ma in parte anche in America Latina, abbia significative potenzialità di crescita. Ciò detto, il vantaggio competitivo della Premier sembra incolmabile. Finché la Serie A non sarà in grado di attrarre i Mbappé e i De Bruyne avrà sempre difficoltà strutturali a conquistare spettatori in Cina o in Giappone o negli stessi Stati Uniti, tanto per citare i mercati più ricchi.

Quel che è certo è che in fatto di soldi gli yankee sanno il fatto loro: il loro sbarco in massa in Italia forse significa che davvero intravedono nel calcio tricolore un business redditizio. (Senza fare stupidi dietrologismi, si può ricordare che già le indagini dell’FBI su Blatter e la FIFA avevano fatto pensare a un inusuale interesse USA verso il calcio). C’è un elemento importante: che si tratti dell’Inter o del Cesena, acquistare un club di calcio in Italia è di gran lunga più accessibile che acquistare una squadra di basket o di football negli States. Ma questo vale anche per gli altri paesi europei. Dove per ora la presenza americana è irrilevante. In Francia la fanno da padrone i qatarioti del PSG. In Spagna si contano sulle dita di una mano le proprietà straniere, nessuna è statunitense. In Bundesliga vige la regola, di fatto protezionista, del 50+1 che, salvo rare eccezioni, lascia il controllo del club nelle mani dell’azionariato popolare. 

Che sia, per paradosso, proprio il fatto di essere la più sgangherata e inefficiente delle competizioni calcistiche europee a rappresentare il principale fattore di attrazione della Serie A? Ma la vera domanda è se l’arrivo del capitale americano porterà una maggiore professionalità e serietà nella gestione finanziaria e sportiva e se ciò garantirà (questa la tesi di Salvo Arena), oltre a una migliore redditività, maggior credibilità e forza contrattuale delle società nei confronti delle istituzioni pubbliche, in primis per la questione della proprietà degli stadi e delle infrastrutture. 

Tutto questo sullo sfondo di una Superlega ispirata proprio al modello nordamericano della NBA e della NFL, Superlega nata e morta in poche ore ma la cui idea sembra covare sotto la cenere (il redivivo Adriano Galliani l’ha rievocata di recente, auspicandone una versione continentale senza inglesi). Nel frattempo, nel ritratto di questo calcio italiano sempre più americano si ritaglia un po’ di visibilità una squadretta come il Como, che improvvisamente si trova ad avere alla spalle una delle proprietà più ricche del mondo, in grado di portare Fabregas tra i giocatori e Henry tra i soci. I proprietari sono Indonesiani ma il management parla inglese (prima Gandler, americano, da un anno Wise, ex Chelsea). Caso di programmazione – credo – unico in Europa, il Como ha stanziato un budget triennale che prevede una crescita progressiva ma costante.

E la Juve? Ai lettori l’ardua sentenza.